I GEMELLI
di Oliver Sacks — 1985
Prefazione del traduttore
Questo racconto tratto dal libro: “L’Uomo Che Scambiò Sua Moglie Per Un Cappello" sconvolgerà i lettori più attenti, descrive una piccola storia poco conosciuta, fatti realmente accaduti riguardanti le capacità di “calcolo" sovrannaturale di una coppia di gemelli autistici, ciò che riuscivano a fare con la loro sola mente è considerato ad oggi qualcosa di termodinamicamente impossibile il calcolo di sequenze di numeri primi molto grandi in tempi ristretti… questo fatto può portare solo a due conseguenze, la comprensione attuale dei numeri primi è completamente errata oppure che la comprensione attuale della mente umana è completamente sottostimata.
Stefano Cudini
Quando nel 1966 feci la conoscenza dei gemelli John e Michael, ricoverati in un ospedale pubblico, essi erano già famosi. Erano stati alla radio e alla televisione e il loro caso era stato descritto in relazioni scien tifiche e in articoli divulgativi. 25 Sospe tto anche una loro presenza nella fantascienza, in forma un po’ «romanzata» ma sostanzialmente uguale a quella delle loro descrizioni scientifiche.
I gemelli, che avevano allora ventisei anni, avevano vissuto dall’età di sei anni in istituti, con diagnosi che li definivano come autistici, psicotici o gravemente ritardati. Le relazioni in genere concludevano che come idiots savants «non erano niente di eccezionale», se non per la loro notevole memoria documentaria dei minimi particolari visivi del loro vissuto, e per l’uso di un inconscio algoritmo calendariale, che consentiva loro di dire all’istante in quale giorno della settimana cadeva una data anche lontana del passato o del futuro. Questo è il parere di Steven Smith nel suo brillante ed esauriente saggio The Great Mental Calculators (1983). Dopo la metà degli Anni Sessanta, quando la «soluzione» dei problemi offerti dai gemelli spense il breve interesse suscitato dal loro caso, non ci furono, per quanto ne so, altri stu di su di loro .
Ma la «soluzione», io credo, fu in realtà un malinteso, forse inevitabile dato l’approccio stereotipato, la rigida formulazione delle domande, la concentrazione su questa o quella «prova», che caratterizzarono l’approccio dei primi investigatori e che ridussero i gemelli — la loro psicologia, i loro metodi, la loro vita — a poco più che nulla.
La realtà è molto più strana, molto più complessa e molto meno spiegabile di quanto non ipotizzino questi studi, per non parlare dei vari test aggressivi o delle interviste-spettacolo alla televisione.
Non che questi studi o queste esibizioni pubbliche siano «malfatti», anzi sono intelligenti, e spesso informativi nel loro genere, ma si limitano alla «superficie» ovvia e verificabile senza andare in profondità, e non lasciano sospettare, né forse immaginano, l’esistenza di una realtà più profonda.
In effetti non si ha sentore di queste profondità dei gemelli fino a quando non si smette di sottoporli a continui test e di vederli come «soggetti» da studiare. Bisogna abbandonare la tendenza a circoscrivere e a verificare, e conoscere i gemelli come persone, osservarli apertamente, serenamente, senza preconcetti, con un’apertura fenomenologica totale e simpatetica, osservarli mentre vivono, pensano e interagiscono in tutta tranquillità, secondo le loro modalità spontanee e singolari. Solo allora si scopre che è in atto qualcosa di decisamente misterioso, che vi sono poteri e profondità di un genere forse fondamentale che in diciott’anni, da quando cioè li conosco, non sono stato in grado di «spiegare».
Al primo incontro i gemelli non fanno effettivamente un’ impressione troppo gradevole: sembrano due grotteschi Tweedledum e Tweedledee, indistinguibili, immagini speculari l’uno dell’a ltro, identici ne l volto, nei movimenti, nella personalità, nella mente, identici anche nelle stigmate del danno cerebrale e dei tessuti. La loro statura è al di sotto della media, hanno mani e testa fortemente sproporzionate, il palato molto convesso, i piedi arcuati, la voce monotona e stridula, tutta u na serie di curiosi tic e manierismi; inoltre una gravissima miopia degenerativa li obbliga a portare lenti molto spesse e deformanti, che danno loro un’aria da professorini strambi e concentratissimi, con un’intensità sproporzionata, ossessiva, assurda. E questa impressione si rafforza non appena cominciano le domande, o quando li si lascia liberi di dare inizio spontaneamente e con un sincronismo da mario nette a uno dei loro «numeri».
Questa è l’immagine che di loro viene data negli articoli pubblicati, e quella che risulta nelle loro esibizioni sul palcoscenico (sono una frequente «attrazione»nello spettacolo organizzato ogni anno dal mio ospedale) e nelle non infrequenti, e piuttosto imbarazzanti, apparizioni in televisione.
I «fatti», in tali circostanze, si ripetono con monotonia. «Diteci una data, una qualunque degli ultimi o dei prossimi quarantamila anni» esordiscono i gemelli. Gli viene proposta una data e un attimo dopo loro dicono a quale giorno della settimana corrisponde. «Un’altra data!» esclamano, e la scena si ripete. Sanno anche dire la data di qualsiasi Pasqua entro lo stesso periodo di ottantamila anni. Nel corso del loro numero s i può notare una cosa di solito non menzionata nelle relazioni: i gemelli ruotan o gli occhi e poi li arrestano in un modo particolare, come se stessero srotolando un calendario mentale o scrutando un paesaggio interiore. A guardarli, si direbbe che «vedano», che visualizzino intensamente, però la conclusione corrente è che essi ricorrano al puro calcolo.
L a loro memoria per le cifre è straordinaria, forse illimitata. Ripetono con la stessa facilità un numero di tre, trenta o trecento cifre. Anche questo è stato attribuito a un «metodo».
Ma quando si mette alla prova l a loro abilità nel calcolo — che è il tipico pezzo forte d ei genii aritmetici e dei «calcolatori mentali» — danno risultati pessimi, come ci si può aspettare dal loro QI di 60. Non sono in grado di eseguire semplici addizioni o sottrazioni e non sanno nemmeno che cosa sia una moltiplicazione o una divisione. Com’è possibile che dei «calcolatori» non sappiano calcolare e manchino delle più rudim entali capacità aritmetiche?
Tuttavia li chiamano «calcolatori del calendario», ed è stato concluso e accettato, su basi in realtà debolissime, che nei loro calcoli di date essi si servano non della memoria ma di un algoritmo inconscio. Se si pensa che persino Carl Friedrich Gauss, uno dei massimi matematici e calcolatori, trovò difficilissimo elaborare un algoritmo per calcolare la data della Pasqua, è assai poco credibile che questi gemelli, incapaci persino dei più semplici metodi aritmetici, possano avere desunto e determinato un simile algoritmo e siano in grado di servirsene. Vero è che moltissimi calcolatori hanno elaborato a proprio uso un ampio repertorio di metodi e di algoritmi e questo ha forse indotto W. A. Horwitz et al. a concludere che ciò valesse anche per i gemelli. Steven Smith, accettando per definitivi questi primi studi, commenta:
«In tutto ciò è in atto qualcosa di misterioso, anche se banale: la misteriosa abilità umana di formare algoritmi inconsci sulla base di esempi».
Se tutto si riducesse a questo, i gemelli potrebbero davvero essere considerati banali e per niente misteriosi, poiché il calcolo di algoritmi, che può essere benissimo svolto dalle macchine, è essenzialmente meccanico e rientra nella sfera dei «problemi» e non in quella dei «misteri».
Invece anche nelle loro esibizioni più plateali c’è un qualcosa che sorprende e lascia perplessi. Essi sanno dire che tempo faceva e che cosa era successo in un giorno qualunque della loro vita a partire dal loro quarto anno di età. Il loro modo di parlare — ben riprodotto da Robert Silverberg nel personaggio di Melangio — è al tempo stesso infantile, preciso e pri vo di emozioni. Appena si dà loro una data, rotean o brevemente gli occhi, li arrestano e poi, con voce piatta e monotona, vi dicono com’era il tempo quel giorno, enumerano gli scarni avvenimenti politici di cui avevano sentito parlare allora e i fatti accaduti quel giorno nella loro vita; questi ultimi spesso includono i dolori e le angosce dell’infanzia, il dis prezzo, lo scherno e le mo rtificazioni subiti, il tutto però riferito con tono piatto e uniforme, senza la minima inflessione o emozione personale. Qui si ha evidentemente a che fare con ricordi che sembrano di tipo «documentario», privi di ogni riferimento o relazione personali o di qualsiasi centro vivente.
Si potrebbe quasi dire che da questi ricordi il coinvolgimento personale, l’emozione, siano stati cancellati, per quello stesso meccanismo di difesa riscontrabile negli ossessivi e negli schizoidi (e i gemelli devono senz’altro essere considerati come tali). Ma si potrebbe altrettanto legittimamente dire, ed è anzi più plausibile, che ricordi di questo tipo non hanno mai avuto un carattere personale, perché tale assenza è una caratteristica fondam entale della memoria eidetica, come è appunto la loro.
Ma ciò che occorre mettere in risalto — e che non è stato a sufficienza segnalato da coloro che ha nno studiato il caso dei gemelli, benché sia evidentissimo a un ascolt atore ingenuo pronto a lasciarsi sbalordire — è la vastità della loro memoria, la sua estensione si direbbe illimitata (pur se infantile e banale), e insieme il modo in cui vengono richiamati i ricordi. Se si chiede loro come fanno a tenere a mente tante cose — numeri di trecento cifre o miliardi di avvenimenti degli ultimi quarant’anni -, rispondono in tutta semplicità: «Li vediamo». E questo «vedere», questo «visualizzare», con una straordinar ia intensità, un’illimitata estensione e una perfetta fedeltà pare essere la chiave di tutta la faccenda. La si direbbe una capacità fisiologica innata, analoga per certi versi nei suoi meccanismi a quella del famoso paziente di Lurija descritto in Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, anche se ai gemelli manca forse la ricca sinestesia e l’organizzazione consapevole dei ricordi del paziente russo. Ma non v’è dubbio, almeno da parte mia, che i gemelli dispongano di un prodigioso panorama, di una sorta di paesaggio o fisionomia di tutto ciò che hanno sentito, visto, pensato o fatto e che in un batter d’occhio, con un processo che si manifesta esternamente nel breve roteare degli occhi e nel loro arrestarsi improvviso, essi sono in grado di ritrovare e di «vedere» (con l’ «occhio della mente») quasi tutto ciò che si trova in quelle ampie distese.
Siffatte capacità mnemoniche sono effettivamente rare, ma non certo uniche. Sappia mo poco o nulla di ciò che le determina, nei gemelli o in chiunque altro. Vi è dunque qualcosa in loro che merita un interesse più profondo, come accennavo prima ? Io sono convinto di sì.
Si racconta che, una volta, Sir Herbert Oakley, professore di musica a Edimburgo nel secolo scorso, trovandosi in una fattoria, sentì strillare un maiale ed esclamò all’istante: «Sol diesis!». Qualcun o corse al pianoforte: era proprio un sol diesis. Il mio primo contatto con le capacità «naturali», e il modo «naturale», dei gemelli avvenne in maniera assai simile, spontanea e (non potei fare a meno di pensare) piuttosto comica.
Una scatola di fiammiferi che era sul tavolo cadde spargendo il contenuto sul pavimento. «111!» gridarono i gemelli all’unisono; e poi John mormorò: «37», Michael lo ripeté, John lo disse una terza volta e tacque. Contai i fiammiferi (mi ci volle un certo tempo): erano 111.
«Come avete fatto a contare i fiammiferi così in fretta? » chiesi. «Non li abbiamo contati» dissero. «Abbiamo visto il 111».
Storie simili si raccontano di Zacharias Dase, il mago dei numeri, che gridava all’istante «183» o «79» non appena veniva rovesciato un mucchio di piselli, e spiegava come meglio poteva (essendo anche lui un ritardato) che non li contava ma ne «vedeva» il numero in un lampo, com e un insieme.
«E perché avete mormorato “37” e lo avete ripetuto tre volte? » chiesi ai gemelli. Risposero all’unisono: «37, 37, 37, 111».
Trovai questo, se possibile, ancora più sconcertante. Che essi vedessero in un lampo il 111, la «centoundicità», era straordinario, ma forse non più straordinario del sol diesis di Oakley, una specie di «orecchio assoluto» per i numeri. Ma essi avevano aggiunto la «scomposizione in fattori primi» del numero 111, senza avere alcun metod o, senza nemmeno «sapere» (nel senso comune) che cosa fosse un fattore primo . Non avevo già osservato che erano incapaci di eseguire i calcoli più semplici e che non «capivano» (o parevano non capire) che cosa fosse la moltiplicazione o la divisione? Eppure ora avevano spontaneamente diviso un numero composto in tre parti uguali.
«Come ci siete arrivati? » dissi con una certa foga. Essi spiegarono, come meglio potevano, con parole povere e inadeguate — ma forse non vi sono parole per cose del genere — che «non ci erano arrivati», ma che semplicemente l’avevano «visto», in un lampo. John fece un gesto con il pollice e due dita tesi, come per indicare che avevano spontaneamente diviso in tre il numero, o che esso si era «scisso» da sé in quelle tre parti uguali per una specie di «fissione» numerica spontanea. Parvero sorpresi della mia sorpresa, come se io fossi in qualche modo cieco; e il gesto di John trasmetteva un senso straordinario di realtà immediata, sentita. É possibile, mi dissi, che riescano in qualche modo a «vedere» le proprietà, non concettualmente, in maniera astratta, ma come qualità, percepite dai sensi in modo per così dire concreto, immediato? E non solo le qualità isolate, come la «centoundicità», ma anche le qualità di relazione? Forse più o meno allo stesso modo in cui Sir Herbert Oakley avrebbe potuto dire «una terza» o «una quinta».
Mi ero già convinto, per questa loro capacità di «vedere» gli avvenimenti e le date, c he essi potevano tenere a mente, che tenevano a mente un immenso arazzo mnemonico, un paesaggio vasto (o forse infinito) nel quale ogni cosa poteva essere vista, o isolata o in relazione ad altro. Quello che maggiormente veniva mostrato quando essi svolgevano il lor o implacabile e affollatissimo «documentario» era l’isola mento piuttosto che la relazione. Ma queste prodigiose capacità di visualizzazione — capacità essenzialmente concrete e ben distinte dalla concettualizzazione — non potevano fornire loro il potenziale per vedere relazioni, relazioni formali, di forma, arbitrarie o significative? Se potevano vedere la «centoundicità» al primo sguardo (se potevano vedere un’intera «costellazione» di numeri), non potevano an che «vedere» al primo sguardo — vedere, riconoscere, metter e in relazione e paragonare, in modo del tutto sensuale e inintellettuale — formazioni e costellazioni di numeri enormemente complesse? Una capacità ridicola, paralizzante addirittura. Pensai al Funes di Borges:
«Noi, in un’occhiata, percep iamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola…Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiam o intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra…Non so quante stelle vedeva nel cielo».
I gemelli, che sembravano avere una particolare passione e padronanza dei numeri, che avevano visto la «centoundicità» al primo sguardo, non potevano forse vedere nella loro mente una «pergola» numerica, con tutti i tralci-numeri, grappoli- numeri, acini-numeri che la componevano? Era u n pensiero strano, forse assurdo, quasi impossibile — ma ciò che essi mi avevano già mostrato era tanto strano da superare quasi ogni comprensione. E, per quanto ne sapevo, era solo un assaggio di ciò che potevano fare.
Riflettei sulla questione, ma non venni a capo di nulla. E poi me ne dimenticai. Me ne dimenticai finché non si verificò un secondo episodio, spontaneo e magico, al quale assistei per puro caso.
Questa volta i gemelli sedevano vicini in un angolo, con un sorriso misterioso e segreto sul volto, un sorriso che non avevo mai visto prima, paghi dello strano piacere e dell a pace che parevano aver raggiunto. Mi avvicinai in silenzio per non disturbarli. Sembravano avvinti in una straordinaria conversazione puramente numerica. John diceva un numero, un numero di sei cifre. Michael afferrava il numero, annuiva, sorrideva e pareva assaporarlo. Poi diceva a sua volta un numero di sei cifre offrendolo a John, che a sua volta lo gustava con soddisfazione. Facevano pensare, a tutta prima, a due esperti assaggiatori intenti a degustare vini rari di annate prestigiose. Immobile e non visto, io ero ipnotizzato e stupefatto.
Che diavolo stavano facendo? Che roba era quella? Non ci capivo nulla. Forse era un gioco, ma aveva una gravità e un’intensità serena, meditativa, quasi religiosa, che non avevo mai osservato in nessun gioco, e sicuramente mai nei gemelli, di solito così esagitati e confusi. Mi accontentai di prendere nota dei numeri che dicevano, di quei numeri che palesemente procuravano loro una tale gioia e che essi «contemplavano», assaporavano, condividevano, in comunione profonda.
Erano numeri dotati di un qualche significato? mi chiesi tornando a casa. Avevano un qualche senso «reale» o universale, oppure anche solo un senso esclusivamente privato o stravagante, come i buffi «linguaggi» segreti che ci si inventa a volte tra fratelli? E pensai ai gemelli di Lurija, Lëša e Jura, gemelli identici cerebrolesi e con disturbi del linguaggio, e a come giocavano e chiacchieravano tra loro usando un linguaggio primitivo e balbettante (Lurija e Yudovich, 1959). John e Michael non usavano nemmeno parole o frammenti di parole: si palleggiavano numeri. Erano numeri «borgesiani» o «funesiani», semplici pergole, o crini di cavallo, o costellazioni numeriche, forme numeriche private, una specie di argot numerico che solo loro conoscevano?
A casa tirai subito fuori le tavole delle potenze, dei fattori primi, dei logaritmi e dei numeri primi, tutti ricordi e cimeli di una strana fase di isolamento della mia fanciullezza in cui anch’io rimuginavo numeri, ero un «veggente» di numeri e nutrivo per lo ro una curiosa passione. Il mio sospetto fu confermato. Tutti i numeri che i gemelli si erano scambiati, numeri di sei cifre, erano primi, cioè divisibili solo per se stessi e per l’unità. I gemelli avevano in qualche modo visto o posseduto un libro come il mio, oppure, chissà come, «vedevano» i numeri primi, così come avevano «visto» la centoundicità o la tripla trentasettità? Certo era che non li calcolavano, perché non sapevano calcolare nulla.
Il giorno seguente tornai al reparto portando con me il prezioso libro dei numeri primi. Li trovai di nuovo appartati in comunione numerica, ma questa volta mi sedetti accanto a loro in silenzio. Dapprima ne furono sorpresi ma, vedendo che non li interrompevo, ripresero il loro «gioco» con i numeri primi di sei cifre. Dopo qualche minuto decisi di unirmi anch’io e arrischiai il mio numero, un numero primo di otto cifre. Si voltaro no entrambi verso di me, poi si bloccarono di colpo con un’esp ressione di intensa concentrazione e forse di stupore sui volti. Ci fu una lunga pausa, la pausa più lunga che gli avessi mai visto fare, mezzo minuto o anche più; poi, d’improvviso e simultane amente, sorrisero.
Dopo chissà quale processo interno di verifica, avevano riconosciuto il mio numero di otto cifre come numero primo e ne avevano provato chiaramente una grande gioia, una doppia gioia: in primo luogo, perché gli avevo offerto un nuovo e bellissimo giocattolo, un numero primo di un ordine di grandezza da loro mai incontrato prima; e poi perché era evidente che avevo capito ciò che stavano facendo, che mi piaceva, che lo ammiravo e potevo prendervi parte.
Si scostarono un po’ per farmi posto in mezzo a loro: ero un nuovo compagno di giochi numerici, una terza presenza nel loro mondo. Poi John, che prendeva sempre l’iniziativa, pensò a lungo, almeno cinque minuti, durante i quali non osai né muovermi né quasi respirare, e alla fine tirò fuori un numero di nove cifre. Dopo una pausa identica, suo fratello Michael rispose con un numero simile. Toccava a me: diedi uno sguardo furtivo al libro e proclamai sfacciatamente un numero primo di dieci cifre.
Il silenzio questa volta fu ancor più lungo e stupefatto; poi, dopo una prodigiosa contemplazione interiore, John sillabò un numero di dodici cifre. Non potevo né controllarlo né rispondere perché il mio libro, unico nel s uo genere per quanto ne so, non andava oltre i numeri primi di dieci cifre. Ma Michael sì, anche se gli ci vollero cinque minuti. E un’ora più tardi i gemelli si scambiavano numeri primi di venti cifre, o così almeno credo, dato che non avevo modo di verificarlo. E nel 1966 una simile verifica non era facile, se non si disponeva di un elaboratore molto sofisticato, e anche con quello sarebbe stato sempre difficile: che si usi o il crivello di Eratostene o qualunque altro algoritmo, non esiste alcun metodo semplice per calcolare i numeri primi. Non esiste un metodo semplice per calcolare numeri primi di questo ordine di grandezza, eppure i gemelli ci riuscivano. (Ma si veda il Post scriptum).
Pensai di nuovo a Dase, che avevo incontrato anni prima nell’affascinante libro di F. W. H. Myers, Human Personality (1903):
«Sappiamo che Dase (forse il più sensazionale di questi prodigi) era singolarmente privo di conoscenze matematiche…Eppure in dodici anni aveva compilato tavole di fattori primi e numeri primi fino al settimo e quasi all’ottavo milione — un’impresa che senza aiuto meccanico pochi avrebbero saputo portare a termine nell’arco di una vita».
Dase può quindi essere considerato, conclude Myers, l’unico uomo che abbia mai reso un prezioso servizio alla matematica pur non essendo in grado di superare il Ponte dell’asino.
Quello che Myers non chiarisce , e che forse non era chiaro, è se Dase avesse qualch e metodo per compilare le sue tavole oppure, come fanno pensare i suoi semplici esperimenti di «visione dei numeri», in qualche modo «vedesse» questi grandi numeri primi, come a quanto pare facevano i gemelli.
Quando osservavo i gemelli senza disturbarli, cosa che potevo fare facilmente perché avevo uno studio nel loro reparto, li vedevo occupati con giochi numerici sempre diversi o in intima comunione numerica, la cui natura non potevo stabilire o anche solo indovinare.
Ma sembra probabile, o forse certo, che quello che fanno ha come oggetto proprietà o qualità «reali», perché ciò che è arbit rario, per esempio i numeri casuali, dà lor o poco o nessun piacere. É chiaro che hanno bisogno di un «senso» nei loro numeri, allo stesso modo forse che un musicista ha bisogno di armonia. E in effetti mi capita di paragonarli a dei musicisti, oppure a Martin (capitolo XXII), anche lui un ritardato, il quale nella serena e maestosa architettura di Bach trovava una manifestazione sensibile dell’armonia e dell’ordine supremi del mondo che gli erano del tutto inaccessibili concettualmente a causa dei suoi limiti intellettuali.
«Chi sia armonicamente composto» scrive Sir Thomas Browne «trova diletto nell’armonia…e in una profonda contemplazione del Primo Compositore. Vi è in essa qualcosa della Divinità, più di quanto l’orecchio non possa scoprire; è una Lezione Geroglifica e adombrata sul Mondo intero…un frammento sensibile di quell’armonia che risuona intellettualmente nelle orecchie di Dio…L’anima…è armonica ed ha la sua più prossima simpatia con la Musica».
In Th e Thread of Life (1984), Richard Wollheim traccia una distinzione assolu ta fra i calcoli e quelli che chiama stati mentali «iconici», e così previene una possibile obiezione:
«Qualcuno potrebbe contestare il fatto che tutti i calcoli sono non-iconici adducendo la ragione che a volte egli calcola visualizzando il calcolo su una pagina. Ma questo non è un controesempio. In tali casi infatti ciò che viene rappresentato non è il calcolo in sé ma una rappresentazione di esso; si calcolano i numeri ma si visualizzano i numerali, che rappresentano i numeri».
D’altro canto Leibniz stabilisce un’allettante analogia fra i numeri e la musica: «Il piacere che traiamo dalla musica viene dal contare, ma da un contare inconscio. La musica non è altro che aritmetica inconscia».
Qual è dunque, per quanto ci è dato saperne, la situazione dei gemelli, e forse di altri? Lawrence Weschler mi racconta che il suo bisnonno, il compositore Ernst Toch, poteva tenere a mente con facilità una lunghissima serie di numeri dopo averla ascoltata una sola volta; ma lo faceva «conve rtendo» la serie di numeri in una melod ia (un motivo musicale che egli stesso inventava «in modo corrispondente» ai numeri). Jedediah Buxton, uno dei più grevi ma ostinati calcolatori di tutti i tempi, che per il calcolo e per i numeri aveva una passione autentica, addirittura patologica (egli stesso diceva di «ubriacarsi di numeri»), «convertiva» la musica e le opere teatrali in numeri. «Durante la d anza» riferisce un resoconto contemporaneo del 1754 «egli concentrò la sua attenzione sul numero dei passi; dopo un eccellente brano musicale dichiarò che gl’innumerevoli suoni prodotti dalla musica lo avevano oltremodo confuso , e persino al signor Garrick prestò attenzione solo per contare le parole da lui pronunciate, cosa che, dichiarò, gli riuscì alla perfezione».
Ecco due begli esempi, anche se di segno contrario: un musicista che volge i numeri in musica e un calcolatore che volge la musica in numeri. Non potrebbero esserci, credo, due tipi di mente o, almeno, due modi mentali p iù opposti.
Credo che i gemelli, che hanno uno straordinario «senso» dei numeri, pur non essendo assolutamente capaci di eseguire calcoli, siano in questo piuttosto affini a Toch che a Buxton. Tranne che — e questo è ciò che noi gente comune troviamo così difficile — essi non «con vertono» i numeri in musica, ma li sentono, dentro di sé, come «forme», come «toni», al pari della moltitudine di forme che costituisce la natura stessa. Essi non sono dei calcolatori, e la loro numericità è «iconica». Evocano e abitano strani scenari di numeri; spaziano liberamente in grandi paesaggi di numeri; creano, drammaturgicamente, un intero mondo fatto di numeri. Essi hanno, io credo, un’immaginazione singolarissima, e non ultima fra le sue singolarità è che essa può immaginare solo numeri. Non sembrano «operare» con i numeri, non iconicamente, come gli altri calcolatori; li «vedono», direttamente, come una vasta scena naturale.
E se ci si chiede se esistono analogie, quanto meno, per una simile « iconicità», credo che le si possa trovare in certe menti scientifiche. Dmitrij Mendeleev, per esempio, si portava in tasca biglietti su cui erano scritte le proprietà numeriche degli elementi, finché non gli divennero perfettamente «familiari» — così familiari che non pensava più a loro come ad aggregati di proprietà ma (così ci dice) come a «volti familiari». Ormai li vedeva iconicamente, fisiognomicamente, come «volti» — volti imparentati fra di loro, come membri d i una famiglia, i quali in toto costituivano, disposti periodicamente, l’intero volto formale dell’universo. Una simile mente scientifica è fondamentalmente «iconica» e «vede» la natura intera come volti e scene, e forse anche come musica. Questa «visione», questa visione interiore soffusa di fenomenico, ha nondimeno una relazione integrale con il fisico, e la sua restituzione, dallo psichico al fisico, costituisce il lavoro secondario, o esteriore, di tale s cienza. («Il filosofo cerca di udire dentro di sé gli echi della sinfonia del mondo» scrive Nietzsche «e di riproiettarli in forma di concetti»). I gemelli, benché deficienti, udivano, io suppongo, la sinfonia del m ondo, ma l’udivano esclusivamente sotto forma di numeri.
L’anima è «armonica», quale che sia il QI, e per alcuni, come gli studiosi delle scienze fisiche e i matematici, il senso dell’armonia, forse, è principalmente intellettuale. Eppure io non riesco a pensare ad alcunché d’intellettuale che non sia, in qualche modo, anche sensibile — anzi, la stessa parola «senso» ha sempre questa doppia connotazione. Sensibile, e in un certo senso anche «personale», poiché non si può sentire nulla, non si può trovare nulla «sensibile» a meno che non sia in qualche modo collegato o collegabile a se stessi. Così, la possente architettura di Bach fornisce, come faceva per Martin A. , «una Lezione Geroglifica e adombrata sul Mondo intero», ma è anche, in modo riconoscibile, singolare, intimo, Bach; e anche questo Martin A. lo sentiva, con acuta partecipazione, e lo collegava con il proprio amore per suo padre.
I gemelli, io credo, non solo possiedono una singolare «f acoltà», ma possie dono anche una sensibilità, una sensibilità armonica, forse legata a quella musicale. La si potrebbe chiamare, molto naturalmente, una sensibilità «pitagorica»: e lo strano è non che essa esista ma che si riveli così rara. Forse l’esigenza di trovare o sent ire una qualche armonia o ordine supremi è un universale della mente, quali che siano i suoi poteri e la forma in cui essa si manifesta. La matematica è sempre stata chiamata la «regina delle scienze», e i matematici hanno sempre considerato il numero come un grande mistero e il mondo come organizzato, misteriosamente, dalla potenza del numero. Questa convinzione è meravigliosamente espressa da Bertrand Russell nel prologo alla sua Autobiografia:
«Con uguale passione ho perseguito la conoscenza. Ho desiderato comprendere il cuore degli uomini. Ho desiderato sapere perché splendono le stelle. E ho cercato di comprendere la potenza pitagorica per la quale il numero domina sul flusso degli eventi».
É strano paragonare questi gemelli minorati a un’intelligenza, a uno spirito come quello di Bertrand Russell. Eppure non credo che sia poi tanto improbabile. I gemelli vivono esclusivamente in un mondo mentale di numeri. Non provano interesse per lo splendore delle stelle o per il cuore degli uomini. Eppure io sono persuaso che per loro i numeri non sono «solo» numeri, ma significazioni, significanti il cui «significando» è il mondo.
Essi non si accostano ai numeri con leggerezza, come fa la maggior parte dei calcolatori. Non provano interesse per i calcoli, non sono capaci di eseguirli e non li comprendono. Sono piuttosto dei sereni contemplatori del numero, e ai numeri si accostano con un senso di riverenza e soggezione. I numeri per loro sono sacri, gravidi di significato. Sono il loro modo — come per Martin la musica — di conoscere il Primo Compositore.
Ma i numeri non incutono loro solo soggezione, sono anche degli amici, forse gli unici amici che abbiano mai avuto nella loro vita isolata, autistica. É questo un modo di sentire piuttosto diffuso fra la gente dotata di talento per i numeri, e di esso Steven Smith, pur riconoscendo l’estrema importanza del «metodo», cita vari esempi assai piacevoli: George Parker Bidder che, parlando della sua passione infantile per i numeri, scriveva: «Acquistai una perfetta dimestichezza con i numeri fino a cento; essi divennero, per così dire, amici intimi, di cui conoscevo a fondo famiglia, parentela e ambiente». O l’indiano Shyam Marathe, suo contemporaneo: «Quando dico c he i numeri sono miei amici, intendo dire che con ciascuno di essi in passato ho avuto a che fare in vari modi, trovandovi sovente nuove e affascinanti qualità nascoste…Così, se in un calcolo m’imbatto in un numero conosciuto, lo considero immediatamente un amico».
Hermann von Helmholtz, a proposito della percezione musicale dice che i toni composti, pur potendo essere analizzati nelle loro singole componenti, sono normalmente uditi come qualità, qualità uniche di tono, come un tutto indivisibile. Egli parla a questo proposito di una «percezione sintetica» che trascende l’analisi ed è l’essenza non analizzabile di ogni senso musicale. Paragona questi toni ai volti, e ritiene che li si possa riconoscere più o meno allo stesso modo, un modo personale. In breve, egli accenna alla possibilità che i toni musicali, e certe melodie, siano effetti vamente dei «volti» per l’udito e siano immediatamente riconosciuti, avvertiti, come «persone» (o «personità»), riconoscimento che comporta calore, emozione, relazione personale.
La stessa cosa sembra accadere a coloro che amano i numeri: anche questi ultimi sono riconoscibili come tali con un unico, intuitivo, personale «Ti conosco!». Il matematico Wim Klein ne rende bene l’idea: «I numeri sono per me, quale più quale meno, degli amici. Per voi 3844 non significa la stessa cosa, vero? Per voi è solo un tre, un otto, un quattro e un altro quattro. Ma io dico: “Ehilà, 62 al quadrato!”».
Credo che i gemelli, in apparenza così isolati, vivano in un mondo pieno di amici, che abbiano milioni, anzi miliardi di numeri ai quali dicono: «Ehilà!» e quelli, ne sono certo, gli rispondono: «Ehilà!». Ma, come 62 al quadrato, questi numeri non sono mai arbitrari, e per trovarli i gemelli (e qui sta il mistero) non usano nessuno dei soliti metodi, anzi, per quanto ne capisco, non usano nessunissimo metodo. Sembr ano piuttosto servirsi di una cognizione diretta, come gli angeli. Essi vedono direttamente un universo e un cielo di numeri. E questa facoltà, per quanto singolare, per quanto bizzarra — ma che diritto abbiamo di chiamarla «patologica»? — conferisce una peculiare e serena autosufficienza alla loro vita: interferire con essa o infrangerla potrebbe avere effetti tragici.
Questa serenità fu effettivamente interrotta e distrutta dieci anni dopo, quando si giudicò opportuno separare i gemelli — «per il loro bene», per porre fine alla loro morbosa intimità e per metterli in grado «di affrontare il mondo…in un modo consapevole e socialmente accettabile» (così si disse, con tipico gergo medico e sociologico). Essi vennero quindi separati nel 1977, con risultati che si possono considerare a scelta soddisfacenti o atroci. Furono entrambi trasferiti in un istituto di «reinserimento» dove ora svolgono, sotto stretta sorveglianza, lavoretti semplici che gli permettono di guadagnare qualche spicciolo. Hanno imparato a prendere i mezzi pubblici, se gli viene ben spiegato cosa devono fare e gli viene già dato il biglietto, e riescono a tenersi abbastanza puliti e presentabili, anche se è sufficiente un’occhiata per accorgersi della loro condizione di minorati e psicotici.
Questo è l’aspetto positivo, ma ve n’è anche uno negativo (non menzionato nelle loro cartelle cliniche perché non è mai stato riconosciuto). Privati della loro «comunione» numerica, impossibilitati a dedicarsi a qualsiasi forma di «contemplazione» o di «comunione», sempre sospinti come sono da un lavoro all’altro, essi sembrano aver perso la loro strana facoltà numerica, e con essa la principale gioia e il senso della loro vita. Ma questo sarà certo considerato un piccolo prezzo da pagare per la loro semi-indipendenza e la loro «accettabilità sociale».
La loro sorte ricorda per certi versi quella di Nadia, una bambina autistica con un talento fenomenale per il disegno (vedi p. 66). Anche Nadia fu sottoposta a un regime terapeutico «per trovare il modo di massimizzare le sue potenzialità in altre direzioni». Il risultato netto fu che essa incominciò a parlare — e smise di disegnare. Nigel Dennis commenta: «Ci ritroviamo con un genio amputato del suo genio, cui non è rimasto altro che una generale deficienza. Che cosa dobbiamo pensare di questa strana cura? ».
Bisognerebbe aggiungere — e su questo punto si sofferma F. W. H. Myers, il quale nelle prime pagine del capitolo «Genius» si occupa dei prodigi matematici — che tali facol tà sono «strane» e possono scomparire spontaneamente, anche se altrett anto spesso durano tutta una vita. Nel caso dei gemelli, naturalmente, non si trattava solo di una «facoltà», ma del centro personale ed emozionale della loro vita. E ora che sono stati separati, ora che la facoltà è scomparsa, la loro vita non ha più né senso né centro.
Post scriptum
Quando lesse il manoscritto di questo testo, Israel Rosenfield fece notare che vi è un’altra aritmetica, più elevata e semplice di quella «convenzionale» delle operazioni, e prospettò la possibilità che le singolari facoltà (e i limiti) dei gemelli riflette s sero il loro uso di ques ta aritmetica «modulare». In una nota di risposta, egli ha avanzato l’ipotesi che gli algoritmi modulari, del tipo descritto da Ian Stewart nel terzo capitolo di Concepts of Modern Mathematics (1975), possano spiegare l’abilità dei gemelli nei calcoli di calendario:
«La loro abilità nel determinare il giorno della settimana entro un periodo di ottantamila anni fa pensare a un algoritmo piuttosto semplice. Si divide per sette il numero totale di giorni tra “oggi” e “allora”. Se non vi è resto, la data cade nello stesso giorno di “oggi”: se il resto è uno, la data cade un giorno dopo, e così via. Da notare che l’aritmetica modulare è ciclica: consiste di strutture (patterns) ripetitive. Forse i gemelli visualizzavano queste strutture, in forma o di semplici tabelle o di una specie di “paesaggio”, come la spirale di numeri interi riportata a pagina 30 del libro di Stewart.
«Questo non spiega perché i gemelli comunicassero in numeri primi. Ma l’aritmetica del calendario richiede il numero primo sette. E se si pensa all’aritmetica modul are in generale, la divisione modulare produrrà strutture cicliche precise solo se si usano numeri primi. Dal momento che il numero primo sette aiuta i gemelli a reperire le date, e di conseguenza gli avvenimenti di determinati giorni della loro vita, essi hanno forse trovato che altri numeri primi producono strutture simili a quelle così importanti per le loro imprese mnemoniche. (Quando, vedendo i fiammiferi, essi dicono: “111…37 per 3”, prendono appunto il numero primo 37 e lo moltiplicano per 3). In effetti, solo le strutture prime sono “visualizzabili”. Le div erse struttu re prodotte dai diversi numeri primi (per esempio, le tavole pitagoriche) sono forse le informazioni visive che essi si comunicano a vicenda quando ripetono un dato numero primo. In breve, l’aritmetica modulare può aiutarli a richiamare alla mente il proprio passato, e di conseguenza le strutture create usando questi calcoli (che sono possibili solo con i numeri primi) possono assumere per i gemelli un significato particolare».
Con l’uso di qu esta aritmetica modulare, fa rilevare Ian Stewart, si può rapida mente arrivare a una soluzione stupefacente in situazioni che sconfiggono ogni «comune» aritmetica — in particolare nella ricerca (con il cosiddetto «principio della piccionaia»)di numeri primi di estrema grandezza e non calcolabili (con i metodi convenzionali).
Se tali metodi, tali visualizzazioni, sono visti come algoritmi, sono algoritmi di un genere molto particolare — organizzati non algebricamente ma spazialmente, come alberi, spirali, archit etture, «paesaggi mentali» — configurazioni in uno spazio mentale formale e tuttavia quasi sensoriale. Ho trovato molto stimolanti i commenti di Israel Rosenfield e le spiegazioni fornite da Ian Stewart c irca un’aritmetica «superiore» (e in par ticolare modulare), poiché sembrano promettere, se non una «soluzione», una illuminazione di facoltà altrimenti inspiegabili, come quelle dei gemelli.
Questa aritmetica più elevata o più profonda fu concepita, nei suoi princìpi, da Gauss nel 1801, nelle sue Disquisitiones Arithmeticae, ma è stata applicata solo in anni recenti. C’è da chiedersi se non esista, accanto a un’aritmetica «convenzionale» (cioè, un’aritmetica delle operazioni) — spesso irritante per insegnanti e studenti, «innaturale» e difficile da imparare-, anche un’aritmetica profonda del genere descritto da Gauss, che sia davvero innata nel cervello, altrettanto innata quanto la sintassi «profonda» e la grammatica generativa di Chomsky. Una simile aritmetica, in una mente come quella dei gemelli, potrebbe essere dinamica e quasi viva: ammassi globulari e nebulose di numeri che ruotano e s i evolvono in un cielo mentale in continua espansione.
Come ho già detto, dopo la pubblicazione di «I gemelli» ricevetti numerose comunicazioni, personali e scientifiche. Alcune trattavano specificamente della «visione» o dell’apprendimento dei numeri, altre del possibile senso o del significato di tale fenomeno, altre delle caratteristiche generali delle disposizioni e sensibilità autistiche e delle possibilità di incoraggiarle o di inibirle, altre ancora del problema dei gemelli identici. Particolarmente interessanti erano le lettere dei genitori di bambini con tali problemi, e tra queste le più rare e straordinarie venivano dai genito ri che le circostanze avevano spinto alla riflessione e alla ricerca e che erano riusciti a combinare una profonda partecipazione emotiva con una rigorosa oggettività. Fra di loro c’erano i Park, genitori estremamente intelligenti di una bambina altrettanto intelligente ma autistica (si vedano C. C. Park, 1967, e D. Park, 1974). La bambina dei Park, Ella, aveva un grande talento per il disegno e una straordinaria attitudine per i numeri, evidente soprattutto nella prima infanzia. Era affascinata dall’ «ordine» dei numeri, soprattutto dei numeri primi. A quanto pare, tale particolare sensibilità per i numeri primi non è rara. C. C. Park mi scrisse di un altro bambino autistico da lei conosciuto che riempiva fogli interi di numeri scritti «costrittivamente». «Erano tutti numeri primi» osservava Park, e aggiungeva: «Sono finestre che si aprono su un altro mondo». In seguito essa menzionò una recente esperienza con un giovane autistico anch’egli affascinato dai fattori e dai numeri primi, che egli percepiva all’istante come «speciali». Anzi, per sollecitare una reazione, si doveva usare la parola «speciale»:
«“Ha qualcosa di speciale questo numero, Joe (4875)? ”. «Joe: “É divisibile solo per 13 e 15”. «Di un altro (7241): “É divisibile per 13 e per 557”. «E di 8741: “É un numero primo”».
Park commenta: «Nessuno della famiglia rinforza il suo interesse per i numeri primi; essi sono un piacere solitario».
Non è chiaro, in questi casi, in che modo le risposte vengano trovate quasi istantaneamente, se siano «calcolate», «conosciute» (ricordate), o, in qualche modo, semplicemente «viste». Chiari sono invece il particolare senso di piacere e il significato connessi ai numeri primi; in parte essi sembrano accompagnarsi a un senso di bellezza e simmetria formali, ma in parte anche a un peculiare « significato» o «pot ere» associativo. Nel caso di Ella, tutto questo era spesso chiamato «magico»: i numeri, specialmente i primi, evocavano pensieri, immagini, sentimenti, connessioni particolari — alcuni quasi troppo «speciali» o «magici» per essere menzionati. Tutto questo è ben descritto nell’articolo citato di David Park.
Kurt Gődel ha discusso, in modo affatto generale, la possibilità per i numeri, soprattutto quelli primi, di fungere da «contrassegno» — per idee, persone, luoghi, o altro; tali contrassegni godeliani renderebbero possibile una aritmetizzazione» o una «numerizzazione» del mondo (si veda E. Nagel e J. R. Newmann, 1958). Se ciò è veramente possibile, può essere che i gemelli, e quelli come loro, non vivano semplicemente in un mondo di numeri, ma in un mondo, in questo mondo, come numeri, e che la loro meditazione numerica o i loro giochi siano una sorta di meditazione esistenziale — e, se si arriva a comprenderli o a trovarne la chiave (come a volte succede a David Park), siano anche una strana e precisa comunicazione.